«Con un’accensione di sguardo vigorosa, Maestri e Pititto tracciano in una sola interprete una geografia di passioni assolute, non determinabili in un tempo storico, restituendo a una danza essenziale di gesti la sua dimensione rituale»: il critico teatrale Giuseppe Distefano riflette su Iphigenia in Tauride | Io sono muta, spettacolo di Lenz Fondazione che lunedì 9 dicembre in doppia replica alle ore 19 e alle ore 21 sarà in scena al Piccolo Teatro di Giulietta, a Verona, in chiusura di Theatre Art Verona.
Questo nuovo processo creativo -secondo capitolo del dittico dedicato da Lenz Fondazione al mito di Ifigenia- è l’esito di una triplice ispirazione: il dramma di Goethe Iphigenie auf Tauris (1787), l’opera di Gluck Iphigénie en Tauride (1779) e la storica azione di Joseph Beuys Titus-Iphigenie del 1969. È interpretato da Monica Barone, danzatrice dotata di una grande sensibilità performativa maturata nel rapporto con la propria specificità fisica. Nonostante i numerosi interventi chirurgici al volto cui ha dovuto sottoporsi fin dalla primissima infanzia, Monica coltiva e pratica con disciplina e passione i linguaggi della danza contemporanea.
«Al centro dell’area scenica, sospese tra i rami metallici di piante meccaniche, in un rispecchiamento nitidamente autobiografico si stagliano le corna della cerva immolata e sgozzata al posto della giovane. Sul proscenio si erge un piccolo altare, un freddo tagliere in acciaio, su cui è posto un lavacro per eseguire i rituali di purificazione:» spiega Maria Federica Maestri, responsabile di regia, installazione e costumi «Su quell’altare, disobbedendo a leggi che ritiene ingiuste e disumane, Iphigenia non immolerà alcuna vittima, non compirà alcun sacrificio umano, ma con un rito intimo e segreto implorerà gli dei di ritornare libera e di essere felice. Di fronte al loro silenzio, confusa e angosciata, decide di osare un’azione audace e di conquistare una nuova patria-corpo, libera da vincoli sociali e religiosi».
Annota Francesco Pititto, curatore della drammaturgia e dell’imagoturgia: «È ancora la biografia che muove il corpo e la vita dà forma al movimento: il Tanztheater di Pina ha segnato per sempre il linguaggio coreografico; le biografie dei danzatori sono state essenziali alla “compositrice di danza”, come la Bausch amava definirsi nel proprio lavoro, per delineare stati emotivi, gesti e movimenti, colori e scritture musicali in ogni opera. Monica, motivata da una profonda necessità esistenziale, ma in particolare per questa Iphigenia, porta in scena se stessa e la propria vita, compie un rituale contemporaneo che necessita ancora di “danza”, oltre la parola, oltre il gesto, per essere libera di riscrivere la propria storia, per “trasformare il mondo”, avrebbe detto Beuys».
Aggiunge la saggista Maria Dolores Pesce: «La danzatrice Monica Barone, la cui singolarità nella diversità è capace di diventare metafora della singolarità che fonda il nostro esserci di sentieri heideggerianamente segnati nella foresta, affronta il recupero di sé nei luoghi che hanno visto la frattura e la cesura con il mondo. È un ritorno in un mondo nuovo ma che, dentro di lei, è sempre esistito, inconsapevole forse, ha da sempre bussato alla coscienza. Un percorso che ce la fa compagna, più che guida, perché i suoi passi, sovrapponendosi, diventino i nostri».